Le dichiarazioni sulla 57ª edizione del Premio Campiello

Ermanno Paccagnini, membro della Giuria del Letterati

Discorso introduttivo sulla panoramica dell'annata letteraria in occasione
della Selezione della Cinquina Finalista

1 giugno 2020

Prima di procedere a stilare un panorama della narrativa italiana dell’annata trascorsa, almeno con riferimento alle opere giunte al premio Campiello numericamente di poco superiori al 200, credo siano opportune alcune precisazioni. Va detto innanzitutto che per gran parte si tratta di opere inviate autonomamente dalle case editrici, peraltro in gran numero provenienti da un’editoria a pagamento. Non sono mancati comunque, tra queste, titoli recuperati nelle loro segnalazioni dai giurati.

Per stilare un quadro credibile ho dunque circoscritto l’ambito delle mie considerazioni ai titoli segnalati dai giurati, per un totale di 86 opere, così distinte: 19 opere prime, 67 opere di autori non più alla prima prova. Aggiungo che anche in questo caso i volumi presi in considerazione risultano ben distribuiti nella loro provenienza tra case editrici appartenenti a gruppi editoriali e tra media e piccola editoria.

Una prima considerazione mi porta a ribadire come si tratti di una produzione in linea con lo scorso anno: in genere si tratta di una buona produzione, anche se non si può non rilevare un certo appiattimento nelle modalità scrittorie e nella strutturazione delle vicende, e dove comunque non sono mancati alcuni titoli di rilievo, se è vero che una prima discussione tra giurati e successivi incroci di indicazioni via mail, stante la situazione sanitaria, hanno portato a considerarne una quarantina, via via ridottasi alla metà e con almeno una preferenza nei conclusivi confronti. Di certo credo si possa parlare di almeno una decina di titoli che avrebbero potuto ben figurare nella cinquina finale, che considero di tutto rilievo e rappresentativa anche della miglior produzione di quest’anno.

Di tale produzione si possono sottolineare almeno alcuni punti, sui quali merita soffermarsi. Un punto che leggo in negativo è la fortissima prevalenza di narrazioni affidate all’io narrante: ben 36 su 67 titoli; cui vanno aggiunti altri due o tre titoli nei quali l’io narrante si alterna alla terza persona. Due poi i titoli con un tu narrativo, tra i quali Sommersione di Sandro Frizziero (Fazi). Si tratta di un io narrante capace di spingersi sino alla vera propria autobiografia, spesso persino querulo nel suo rovistarsi e altre volte disturbante quando, alternandosi alla ricostruzione propria del romanzo storico, tende a riportare in prima persona all’oggi quegli elementi di modernità o attualità che sarebbero dovuti emergere dalla narrazione stessa. È anche vero che nella cinquina sono presenti due titoli di rilievo anche stilistico ed esattamente opposti di come questo io narrante può essere letterariamente giocato, per di più in linea con dei modelli letterari: con Passi giapponesi di Patrizia Cavalli (Einaudi) e Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapino (minimum fax).

Credo sia invece da ascrivere al versante positivo innanzitutto la presenza di ben sette volumi di racconti, o comunque volumi che propongono forme narrative brevi.

Un secondo aspetto positivo è la forte presenza, con ben undici titoli, di opere che si muovono nell’ambito della visionarietà, della surrealtà, di un immaginario ironico o magico, rappresentata in cinquina da L’incanto del pesce luna di Ade Zeno (Bollati Boringhieri).

Ancora va rilevata la ricca presenza della provincia o di microcosmi paesani, magari paesi che muoiono, come in Tralummescuro di Francesco Guccini (Giunti).

Quanto invece ai temi, sono numerosi i romanzi che incontrano la storia (ben oltre 15) nelle sue varie declinazioni: per via di “conti” familiari; come romanzi-reportage su fatti del passato (ed è aspetto quanto mai interessante); romanzi storici veri e propri (non senza in qualche caso con incroci con il presente); come memoria storica di sé; come attraversamento di un secolo, senza comunque entrare nell’autobiografia.

Un altro tema presente ha a che fare con la narrativa odeporica, ove però il viaggio è gestito anche in forme immaginarie e pure ironiche.

Quanto ai conti col passato al centro delle narrazioni, riguardano innanzitutto l’ambito familiare (né può qui mancare il dramma del terrorismo); se invece rivolti su se stessi, o sono condotti in termini generali oppure come rivisitazioni in seguito a lutti.

Non mancano poi storie familiari nel senso più proprio, così come vicende di bulimia e anoressia; femminicidi (anche tra noir e distopia); riscritture di storie accadute nella realtà pur rivendicandone la trasfigurazione in autonoma narrazione; scritture che o operano direttamente nell’ambito metaletterario, o che si dilettano comunque con richiami o riferimenti letterari. Poco rappresentato invece il mondo del lavoro, anche se là dove lo è, è condotto con equilibrio tra passione e scrittura. Infine assai raffigurato è l’universo dei sentimenti, con l’amore declinato nelle più varie forme, dalla gelosia all’ambivalenza delle relazioni, ai rapporti di figliolanza e genitorialità.

Quanto alle 19 opere prime, si presentano così suddivise: otto in terza persona, otto affidate a un io narrante, e tre nelle quali le due forme si alternano.

Detto che si tratta di opere di qualità, con almeno cinque o sei di esse di tutto rispetto, quanto ai temi sono equamente suddivise tra quelli già sopra ricordati, e segnatamente: romanzo reportage: storie di famiglia (ma qui con intervento del magico), il metaletterario; la memoria storica, così come i risvolti autobiografici (che vanno anche nel fiabesco); l’anoressia; l’ambientazione in provincia; il razzismo; il viaggio (e dalla felice ossessione per le mappe viene Le isole di Norman di Veronica Galletta, Premio Opera Prima, edito da Italo Svevo); ma pure argomenti che hanno a che fare con la mente (schizofrenia). Non manca un romanzo affidato allo stile epistolare, dall’esito di qualità; ma va rilevata soprattutto, in queste opere prime, la considerevole presenza del romanzo storico (almeno quattro opere); e in quest’ambito almeno tre romanzi che vanno a rovistare negli anni del ventennio fascista e nazista.

Ciò che non si può non notare è invece l’assenza di racconti tra le opere prime; e l’auspicio per la prossima edizione resta dunque di poter reincontrare questa forma narrativa così propria alla tradizione italiana. E che molto può insegnare sul piano della ideazione, della strutturazione e della densità della scrittura.


Ermanno Paccagnini


=> I momenti salienti della Selezione: https://www.youtube.com/watch?v=95AbaLkH4cA
=> La registrazione della Selezione: https://www.youtube.com/watch?v=PNepC_5NJOE&t=2075s



Daniela Brogi, membro della Giuria del Letterati

Discorso introduttivo sulla panoramica dell'annata letteraria in occasione
della Selezione della Cinquina Finalista

Padova, 31 maggio 2019

Cosa rende un testo un fatto letterario?

È proprio attorno a questa domanda che ha lavorato per mesi la Giuria dei Letterati, leggendo, dialogando, e finalmente portando qui, oggi, , una selezione di libri che dopo la nomina della Cinquina cominceranno un’altra avventura: quella del confronto con i lettori e le lettrici del Campiello, non solo i trecento della Giuria Popolare, ai quali io adesso ho il compito di consegnare una specie di “Diario di Bordo”: una mappa per continuare il cammino, anche arricchendolo, o variandolo, chissà, perché la storia di un libro è sempre anche la storia di chi sceglierà di farlo leggere e di leggerlo, di farlo vivere, insomma.
Sulla prima pagina di questo provvisorio Diario di Bordo fermerò subito tre punti essenziali, utili, se si vuole, a costruire una prospettiva.

1. Il fatto di scrivere, anche di pubblicare, non significa immediatamente saper scrivere.
2. Saper scrivere, anche correttamente, non significa immediatamente essere uno scrittore o una scrittrice.
3. Essere uno scrittore o una scrittrice può esser cosa diversa da saper narrare.

Tra i molti libri da noi considerati non sono pochi i testi “troppo incerti”, vale a dire debolmente consapevoli di quanto l’immaginazione, proprio come scoperta di punti di vista, sperimentazione di forme e prospettive testuali, possa essere un affare molto serio, molto grave, e di cui avere cura – perché un’opera non è solo un’idea, è un progetto.
E nemmeno, d’altra parte, sono stati pochi i testi “troppo sicuri”, quelli che corrono il rischio di inventare autori che la sanno più lunga dell’opera, e che coprono la voce dei personaggi e della storia con i loro pensieri o i loro stilemi.
Né sono pochi i libri che svalutano la storia che hanno creato, usando una lingua ingenua e frasi fatte.

Il fatto è che nell’inventario del presente consegnatoci dalla narrativa italiana di questo ultimo anno persiste, direi, una separazione ancora troppo forte tra quella che possiamo definire l’arte della scrittura (come stile) e quella che possiamo definire l’arte della narrazione (troppo trascurata, talvolta). Se e quando è presente la prima (Alessandro Manzoni la chiamava la dicitura) spesso può mancare la seconda (la bella storia). E questa reciproca e pregiudiziale diffidenza tra dicitura e bella storia può provocare talvolta, nelle finzioni come nei giudizi critici, una “semplicità convenzionale”; oppure, dal lato opposto ma complementare, una “complessità (una complessità di lingua e di postura) altrettanto convenzionale. Si incontrano, cioè, libri abituati a rivolgersi a un uditorio ora troppo generico, ora, e la situazione è rovesciata ma non risolta, a un uditorio troppo noto, ristretto, persino autoreferenziale, e che non sempre ha cura della letteratura come esperienza altra, lavoro e curiosità, immaginazione.

Ma per fortuna esiste il Campiello, il progetto e il laboratorio del Campiello, ivi compreso, se mi consentite, il lavoro dell’organizzazione (a tutti i livelli: a partire dai Presidenti Zoppas e Luxardo, dal Comitato, fino all’instancabile Trio Bordignon-Siffredi-Trivellato). Un Progetto che ci consente, appunto, di interrogarci di mantenere domande richieste, sguardi, curiosità. Libertà.

Quale volto, quale corpo, quale esperienza della contemporaneità inventano – in senso letterario - i libri che abbiamo letto? A quale mondo ci chiedono di guardare, di pensare, di credere? Quali destini, quali ambiguità della condizione e della vita umana sono formalizzati come seri e significativi, vale a dire sono stati considerati narrabili? Con quali storie ci chiedono di entrare in empatia? (Uso qui, di proposito, un termine a cui si riferiva già Pirandello quando parlava di sentimento: una parola di cui la critica può reimpossessarsi con intelligenza, sottraendolo a usi falsi e devianti, anche per dialogare meglio con lettrici e lettori). Indicherò, qui di seguito, e procedendo per rapidi esempi, alcune risposte dateci dai libri letti.

Le storie a cui più ha creduto la narrativa italiana degli ultimi dodici mesi sono spesso storie dell’io, dove, tanto a livello tematico che strutturale, sono più le cose che si ricordano di quelle che succedono. E si ricordano sotto forma di memoir, autobiografismo, affabulazione, metafinzione romanzesca e letteraria. Messo al di fuori, in molti casi, dall’esperienza presente, l’”io”, tanto come istanza narrativa quanto come istanza raccontata, riafferma anche per via paradossale, memoriale, o cerebrale, un bisogno di protagonismo testuale che però vive disfacendosi, sdoppiandosi, di traverso, guardandosi e collocandosi, anche in maniera ipertrofica, al di fuori dei concetti di interiorità romanzesca classici, per raccontarsi attraverso situazioni che spostano il soggetto nel lavoro delle forme, oppure lo ricollocano nel tempo - nel passato, nel futuro - e negli spazi.
E così si sono avuti esperimenti di reinvenzione linguistica e narrativa di vicende e biografie storiche lontane (scegliendo spesso, come da sempre accade, l’epoca più reattiva in senso narrativo, vale a dire il periodo tra fine Cinquecento e Seicento). Con progetti testuali che oltrepassano, per via di affabulazione, sia il romanzo storico classico che il romanzo storico postmoderno - penso a Pariani: Il gioco di Santa Oca, Tarabbia: Madrigale senza suono. In altri casi invece si allestiscono impalcature narrative più tradizionali (Pazzi, Cibrario, Silini), o si è messo in scena, invece, una forma di romanzo storico distopico (Avoledo, Furland®).
Icarus, di Cavezzali, Il risolutore, di Giannubilo, M, di Scurati, affrontano e decostruiscono modelli leggendari di io; Scurati, in particolare, compone un’opera-monstrum dedicata all’ io maschile più ingombrante e mitomane dell’immaginario italiano moderno. Mentre, all’opposto, l’io si racconta aggredendo gli stereotipi, attraverso la crisi (Pomella, L’uomo che trema) o esplorando relazioni poco conformi o non considerate dal senso comune come universalmente significative – è il caso del rapporto madre-figlia, così come è reinventato e riguardato dai romanzi d’autrice di Ciabatti o Milone.
Mentre la strada del memoir è stata percorsa da Cotroneo, Terranova, Locascio, Susani.
Un altro mondo reso visibile e illuminato con esiti significativi è poi quello dei ragazzini. Con moduli narrativi e stilistici differenti, i libri di Colagrande (La vita dispari), Franzoso (L’innocente), i racconti di Masini (Più grande la paura) o Vinci (Mai più sola nel bosco), e, in parte, anche Parrella (Almarina), rappresentano la solitudine dei bambini in quanto minori, persone letteralmente tenute in una posizione di minorità e in balia di leggi e parole adulte spesso malate.
Mentre Durastanti, Ghidotti, Marconi, tutte autrici, raccontano le storie di una generazione e di un’Italia intera: quella di chi sta lontano e vive, lavora, immagina all’estero.
Tra i fenomeni più ricorrenti e importanti va poi annoverata la tendenza al racconto delle evoluzioni e delle tensioni dell’immaginario sociale attraverso la narrativa legata ai luoghi: potrà trattarsi della periferia marginale romana di Pecoraro (Lo stradone), oppure del quartiere Marassi, a Genova, di Vaccari (Un marito), della Bassapadana di Pontescuro di Ragagnin - sono i primi esempi. Ma pure, per ragioni diverse, la reinvenzione dello spazio come prospettiva testuale agisce anche nel libro di Cavalli (Carnaio), autore, come Santangelo (Da un altro mondo) e Mannocchi (Io Khaled vendo uomini e sono innocente) di storie che non spiegano ma mostrano destini tremendi di migrazione e di traffici di corpi che fanno entrare l’osceno: il reale lasciato fuori scena, ora perché rimosso, ora perché allegorizzato, e spostato, in molti casi, dai racconti nel passato, nella memoria, in un presente distopico, o, altre volte, nell’esplorazione di un individualismo che può apparire tanto più bisognoso di narrarsi quanto più sembra insensato e vuoto.
Il corpo malato diventa spazio di discorso sull’umanità in uno dei pochi libri che ci fa entrare in un ospedale (Cenciarelli). Tornando agli spazi: un po’ diverso il discorso per Napoli, che funziona spesso come reagente teatrale, vale a dire come luogo riscoperto e reinventato rivalutando la drammaturgia degli spazi, e con risultati alterni: Forgione, Ianniello, Goodrich; o per restituire al racconto storie dei margini Vico esclamativo, di Chiara Nocchetti.
Roma domina, talvolta anche troppo, nelle narrazioni articolate a partire da un io pseudoautobiografico (più affratellato all’autobiografismo e all’autoesibizione che all’autobiografia) e che ragiona passeggiando per le zone romane (Pecoraro, Trevi, Sogni e favole, Cotroneo: Niente di personale, Covacich, Tuena. E Pincio, che con Il dono di saper vivere compone una trama a ipsilon, fatta di spazi e memorie caravaggesche che non concludono mai, eppure restano.
La vera letteratura non insegna una morale: la letteratura ci fa vivere vedere e sentire un destino, anche molto lontano dal nostro, come destino umano, occasione di un cammino. Molti libri letti quest’anno ci parlano di storie corali di giovani per inscenare un senso del futuro come possibilità collettiva perduta (Bugaro, Non c’è stata nessuna battaglia, Santoni con I fratelli Michelangelo, Gregorio Magini con Cometa, Montanaro, Le ultime lezioni). Parabole di formazione, recherches dalla rotta invertita, con la freccia del tempo orientata sul passato (Magliani, Prima che te lo dicano gli altri; Perissinotto, Il silenzio delle colline). Il futuro diventa una scenario distopico - anche in senso relazionale, come in Viola Di Grado- creando soluzioni stranianti non solo dal punto di vista linguistico, ma visionario - penso anche al reportage dal futuro di Violetta Bellocchio, con La festa nera, o a Bertante, con Pietra nera).

Abbiamo letto, riletto, discusso, ragionato anche di piacere delle storie. Con le differenze vitali che state per verificare, siamo state e stati tutti d’accordo sulla risposta finale alla domanda da cui sono partita: cosa rende un testo un fatto letterario? La risposta è nei libri selezionati come nella serietà con cui abbiamo lavorato: è la capacità, il progetto di rompere il silenzio oppure, al contrario, di staccarsi dall’espressione come chiacchiera, vuoto proclama, rumore di sottofondo.

Grazie e Buona Lettura.



Lorenzo Tomasin, membro della Giuria del Letterati

Per una letteratura che sia esigente. (Il sole 24 ore, dom 7 giugno 2020)

Non è stato semplice quest’anno selezionare la cinquina finalista del Premio Campiello. E non lo è stato – con buona pace di chi pensa che in tempi di confinamento ci debba essere più tempo per leggere – perché gli effetti della pestilenza si sono rivelati nocivi anche per la qualità di un lavoro in apparenza ben compatibile con l’isolamento, ma in realtà bisognoso di scambi, incontri, e soprattutto di un contesto sano. Chi legge, e lo fa professionalmente, non è separato dal mondo, e anche per questo non si può che sperare che il Campiello recuperi presto la sua presenziale concretezza: a settembre, si spera, o appena le circostanze lo renderanno possibile.
Il risultato del lavoro, ciò non ostante, è soddisfacente a detta di tutti i membri della giuria dei Letterati riunitasi a distanza la settimana scorsa per l’ultima seduta. Il loro sforzo si può forse ricondurre alla volontà di cercare – movendo in direzioni diverse – esigenti soluzioni alternative rispetto alle formule più stancamente convenzionali e ripetitive di un romanzo che rappresenta, oggi, l’unica forma d’accesso alla letteratura tout court per un’ampia quota di lettori, se è vero che proprio la narrativa contemporanea è uno dei versanti più tumultuosamente (e spesso compulsivamente) produttivi della pur non florida editoria italiana.
Così, il primo titolo ad approdare in cinquina, già alla votazione iniziale, è Con passi giapponesi di Patrizia Cavalli (Einaudi). Non è un romanzo, ma la prosa per molti versi sperimentale di una voce tra le migliori della poesia italiana d’oggi che sa far cantare la pagina anche quando – come qui per la prima volta – sceglie l’oratio soluta. Una galleria di nitide istantanee interiori, in cui una voce che siamo abituati ad ascoltare in poesia si cala nelle movenze ora sommesse, ma più spesso brusche e vigorose d’una prosa che è un corpo a corpo tra la lingua e la realtà.
Il secondo, Sommersione di Sandro Frizziero (Fazi), è un libro insolitamente scritto in seconda persona, rivolto a un vecchio e a un mare di una riconoscibilissima Pellestrina, una delle isole sospese nello spazio e nel tempo che cingono la laguna di Venezia, luogo ben adatto all’atmosfera di onirico dialogo in cui scorre una storia d’amore e di malinconia: il ricordo di un rapporto lungo una vita, l’inverno di una vedovanza maschile, la cui protagonista è più la donna assente che il pensoso superstite.
Il terzo, Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto (Giunti) segna il ritorno di Francesco Guccini a un filo che il cantautore modenese aveva cominciato a dipanare nel 1989 con Cròniche Epafàniche, proseguendo poi con Vacca d’un cane e Cittanòva blues: anche qui, Guccini scrive intingendo la penna nell’inchiostro iridescente del dialetto, e racconta in una lingua inimitabile ed efficacissima il mondo della civiltà contadina e montanara insieme che si aggrappa alle pendici di un Appennino selvaggio.
Linguisticamente eversivo – e perciò ben gradito in un panorama in cui la lingua pare essere l’ultima preoccupazione di tanti romanzieri tutti uguali l’uno all’altro – è anche il quarto volume della cinquina, Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapino (Minimum Fax), apprezzabile sfida alla moda asfissiante della seriosa autofiction in cui a prender la parola è un matto del villaggio, venuto al mondo nel 1926 in un paese italiano di cui non si dice il nome; testimone stralunato della storia del secolo passato, e d’un pezzo di quello presente, Liborio Bonfiglio è un semicolto decisamente svitato, un disadattato brillante con gli occhi bene aperti sulla grande e sulla piccola storia che gli scorrono davanti con il clangore di una banda filarmonica di provincia.
L’ultimo libro della cinquina è L’incanto del pesce luna di Ade Zeno (Bollati Boringhieri), in cui l’istituto narrativo che viene messo in discussione è quello del realismo comunque inteso: romanzo surreale, quello di Zeno si mantiene solo in apparenza sui binari di una ben plausibile – e perciò angosciante – realtà gravata dalla presenza incombente della morte, con tutta la sua fisicità orripilante e, per buona parte del testo, propriamente omicida. Un esperimento gotico, insomma, che dialoga con altri e meno compromessi comparti della letteratura più illustre, finendo per essere a suo modo colto, se pure in forma dissimulata.
L’estate porterà consiglio, ora, alla giuria dei trecento lettori che, rinnovandosi come ogni anno, è chiamata a scegliere il migliore dei cinque libri con gli occhi sgombri dai pregiudizî professorali che guidano e insieme sviano i letterati responsabili della selezione. Non sarà un compito facile, e meno ancora lo sarà per chi nelle scorse settimane si era magari già portato avanti sbirciando le pagine – di solito più facili e accattivanti – dei molti favoriti e super-favoriti della vigilia, puntualmente dileguatisi nella classifica finale. Càpita, specie quando a condurre la votazione è una precisa liturgia che pare fatta apposta per evitare calcoli e accordi preventivi: pur non essendosi svolta nella solenne atmosfera patavina del Bo, la procedura è stata scrupolosamente osservata anche quest’anno nel contesto un po’ straniante di una riunione a distanza. La forma propriamente pubblica e a tratti affannosa delle quattro successive votazioni che hanno portato al risultato finale sarà risarcita, purtroppo, solo dalla trasparenza sui generis assicurata dai canali sociali (si chiamano così, per antifrasi) del Premio. Sono effetti collaterali talora trascurati di un mondo che a volte crede di potersi spostare senza contraccolpi nell’iperuranio digitale, finendo per rendere così freddo e distante, per curioso paradosso, ciò che sembra tanto facilmente accessibile, con un clic.

@lorenzotomasin